La Cucina Cellese

   

La cucina Cellese rispecchiava in primo le condizioni di vita delle persone, infatti era molto povera o meglio molto semplice ed era costituita esclusivamente da prodotti caserecci o quanto si riusciva a coltivare per il sostentamento della propria famiglia.

I primi cambiamenti avvennero verso il millenovecento ,millenovecentotrenta quando iniziò l'emigrazione soprattutto negli Stati Uniti d' America e nell' Argentina e successivamente, verso gli anni '50, nelle regioni italiane,soprattutto del Piemonte, della Lombardia, dell' Emilia e della Toscana. Gli emigranti appena potevano tornavano dalle loro famiglie rimaste a Celle, importando oltre ad oggetti e vestiario anche alcuni generi alimentari e nuove ricette. Così con il progressivo miglioramento della vita anche la cucina Cellese iniziò ad arricchirsi.

Oggi si ha il ritorno al passato anche per la cucina, infatti gli emigrati quando ritornano a Celle vanno alla ricerca di vecchie ricette ( ad esempio cotica e fagioli ) proprio perchè non si mangia più come una volta e quei sapori restano soltanto un ricordo.

Le ricette tramandate dal passato sono realizzate quasi sempre con gli stessi ingredienti che sono la farina, la carne, il latte ed i legumi. I prodotti che si acquistavano erano pochissimi e diffuso era il baratto anche a livello alimentare.

Un prodotto che veniva acquistato anche se raramente era l'olio, considerato un lusso poichè pochi erano coloro che possedevano uliveti, esso veniva usato solo per alcune occasioni tipo i banchetti nuziali, oppure per condire l' insalata visto che il lardo non poteva essere usato; alcuni lo mischiavano con l 'acqua per consumarne meno possibile.

Largo consumo avveniva di verdura e frutta soprattutto durante le buone annate. Quasi tutte le famiglie possedevano un orto dove coltivavano insalate, cavoli, verze, broccoli, patate, zucchine, cetrioli, piselli, fagioli, pomodori, spezie varie, ecc.....

La salsa di oggi, molto diversa da quella di un tempo si chiamava  " cunzèrve " (conserva);                    i  pomodori, dopo averli schiacciati si mettevano a cuocere in grossi pentoloni, girandoli spesso. A cottura ultimata si passavano su di un attrezzo chiamato " setaccè " (setaccio) fatto di quattro tavole ed una specie di grattugia, la polpa che si ricavava si metteva ad asciugare al sole in piatti grandi, usati anche per mangiare, chiamate " spàse " che si chiedevano anche in prestito ad altre famiglie perchè ne servivano parecchi oppure si mettevano sulle spianatoie, poi si conservava in vasetti di terracotta ricoprendola di uno strato di grasso o di olio. Quando si doveva fare il sugo si prendeva a cucchiaiate si scioglieva nell'acqua calda e si faceva cuocere, chi ne aveva la possibilità aggiungeva un pò di carne o anche solo ossa per insaporire.

Importante era conservare ciò che si produceva per gli inverni freddi e lunghi. Alcuni ortaggi come ad esempio le carote rosse, i peperoni rotondi, le pere si conservavano nell'aceto e si consumavano come insalate.

Mentre molto più semplice era conservare i legumi in sacchetti di stoffa. I ceci e le fave si usavano mangiare la sera arrostiti, quando si riunivano un gruppo di persone e i più anziani raccontavano dei fatterelli, e  si arrostivano portandoli al forno. Le fave che dovevano essere consumate diversamente si facevano prima cuocere un pò nell'acqua, per evitare che si formassero " lo pàppele " ( gorgoglioni dei legumi secchi ), poi si mettevano ad asciugare e si conservavano. Quando si dovevano mangiare si mettevano a bagno la sera prima, la mattina alcuni usavano togliere la buccia prima di cuocerle, altri invece le cuocevano intere con la pasta oppure con la cipolla e la verdura.

Numerose erano le ricette nelle quali si usavano i fagioli; infatti abbiamo la famosa polenta fatta con la farina di granoni o con la semola. La gente più povera la faceva semplicemente condendola ad ogni strato con il lardo. 

Ritornando ai fagioli abbiamo il pancotto al quale si poteva aggiungere anche la verdura e le patate.

Un altro piatto era  " la ciambòtte " ( miscuglio ) fatta con pizza di granoni e fagioli. I fagioli venivano, anche riposti in una pignatta ( vaso di terracotta ) con la cotica del maiale e si facevano cuocere lentamente vicino al fuoco. In alternativa alla cotica si poteva mettere un tipo di salsiccia chiamata " la cutechine " ( la coticata ) fatta di: pezzi di cuore, di lingua, di cotica e di carne sanguinosa del maiale.

La pignatta si usava anche per preparare  " la cucine o lu bullìte " ( il bollito ), gli ingredienti erano: la carne di maiale, i piedi, la coda, la testa, la lingua, le orecchie, le catalogne, le cicorie o i cicorioni.

Saporita per gli amanti della cipolla era  " la cepullàte " ( la cipollata ), si prendeva il tenero della coda delle cipolle, si faceva cuocere con acqua ed un pò d' olio ed infine si aggiungeva l'uovo sbattuto con un pò di formaggio.

Verso gli anni '30 pochi erano coloro che si potevano permettere la carne o comunque il suo consumo era limitato a poche volte durante l' anno. Mentre, già verso gli anni '50 quando le condizioni di vita migliorarono anche la cucina diventò un pò più ricca.

Si allevano galline, principalmente per la produzione delle uova, le quali venivano si mangiate che vendute a commercianti di altri paesi, il suo ricavato serviva ad acquistare alcuni prodotti indispensabili come ad esempio il sale, lo zucchero oppure i fiammiferi. Quando queste non facevano più le uova o c'era qualcuna moribonda si ammazzava e con essa si faceva il brodo.

Importante era fare il brodo quando una donna partoriva, in quanto si diceva che aiutava per l'allattamento.Si usava che la futura madrina del bambino, nel momento in cui si recava a far visita al nascituro, doveva portare una cesta con una gallina, i tagliolini per il brodo, lo zucchero, le uova, e quello che si aveva in casa.

Il brodo poteva essere fatto con i piccioni, qualcuno ricorda che quando non c'era nulla da mangiare andavano in cerca dei nidi per poter catturare qualche passerotto. IL pollo si usava mangiarlo il giorno di San Vincenzo e lo si faceva ripieno di polmone e di fegato del pollo stesso fatto a pezzetti e amalgamato con la mollica del pane, uova e formaggio.

Anche le pecore e le capre si mangiavano raramente, allevate per la produzione del latte e della lana e come anche le galline si tenevano nel paese e si lasciavano libere nelle strade.

Con il latte oltre al formaggio,alle mozzarelle,alla ricotta e ai caciocavalli si faceva "la nembose". Dopo aver fatto la ricotta si prendeva il siero e le eventuali briciole di ricotta che erano rimaste in esso e si mangiava a scarpetta con il pane. 

Quando una mucca partoriva, dopo che aveva allattato il vitellino, si mungeva; " la culostre "  (colostro) che si otteneva era molto giallo e non era molto gradevole, visti i tempi difficili non poteva essere buttato, e poteva essere usato solo per fare una pizza dolce chiamata " la ppizz'a faule ". Oggi questo dolce si usa prepararlo a Pasqua e si utilizza la ricotta bianca.

Sempre con il latte, come già detto negli usi e costumi, il giorno dell' Ascensione si usava raccoglierlo appena munto nelle masserie limitrofe a Celle, si portava a casa e le donne preparavano " le lavanèlle do lu lète " (tagliatelle strette con il latte). Prepararle era molto semplice, chi era riuscito a raccogliere più latte le cuoceva direttamente con esso aggiungendo solo un pò di sale, mentre chi ne aveva poco le cuoceva nell'acqua, a metà cottura le colava un pò e dopo aver aggiunto il sale e un pò di latte si facevano finire di cuocere.

L' agnello si mangiava alle feste e non poteva mancare ai banchetti nuziali i quali si svolgevano in casa. Esso si cucinava bollito con le verdure, con il sugo ed in fine ad arrosto con le patate "la turtiere". Piatto tipico a Celle di San Vito il giorno della Pasquetta era "lu spezzatielle" (lo spezzatino) gli ingredienti erano: cardi,cicorioni o catalogne, carne d'agnello, lardo o olio, uova sbattute con il formaggio, questo piatto oggi nel nostro paese è ancora molto usato.

Con le budella dell'agnello si facevano "lo turcenielle" (i torcinelli) attorcigliandoli su di essi si condivano al centro con prezzemolo e aglio e si cucinavano con l'arrosto.

La ricchezza della casa, sempre per coloro che lo allevavano, era il maiale, non tanto per la carne quanto per il lardo e c'era quasi una gara a chi riusciva ad ammazzare il maiale più grasso. Dallo scioglimento del grasso si otteneva la "sugna" indispensabile in cucina sia come condimento che per conservare la salsiccia e le costate. Il grasso destinato per cucinare veniva tagliato a pezzi grandi, compreso di cotica, ed appeso ad una mazza di legno che pendeva dal soffitto chiamata "perece" quando serviva si tagliava una fetta e si poneva su di un attrezzo chiamato "tacci-a larde" (taglia lardo) si batteva con un martello di legno per renderlo più fine e facile da sciogliere.

A quei tempi nulla doveva essere buttato e quando si ammazzava il maiale, la prima cosa che si recuperava, per cucinarla successivamente, era il sangue. Con questo ultimo si faceva una crema aggiungendo lo zucchero, il vino cotto e l'uva sultanina.

In questa occasione si cucinavano "le lavanèlle do lu sànghe" (tagliatelle strette con il sangue). Queste si potevano preparare in due modi, o direttamente con la crema preparata precedentemente, oppure, utilizzando gli stessi ingredienti (sangue,zucchero,uva sultanina,vin cotto) si riempivano alcune interiora del maiale (chiamate sammucchie) ben pulite e si facevano cuocere nell'acqua.Quando queste erano ben cotte si toglievano e nella stessa acqua si cuocevano le tagliatelle. Questo piatto poteva essere consumato sia caldo che freddo. Caldo era più liquido, freddo invece si induriva diventando tutto di un pezzo e si mangiava a fette; poteva essere conservato per diversi giorni.

Lo stesso giorno che si ammazzava il maiale a pranzo si usava cucinare "lu suffrìtte" (il soffritto).Si faceva a pezzetti il fegato, il polmone, le patate ed i peperoni sottaceto, si aggiungeva qualche foglia di alloro un pò di sale e si facevano friggere il tutto con il grasso. Poi con il grasso che restava sul fondo si facevano "lo cautièlle" fette di pane fritte e mangiate calde.

Tipica della cucina Cellese sono "le nòglje", fatte con le interiora più grandi del maiale.Queste dopo essere state pulite e ben lavate si lasciavano per qualche giorno nell'acqua con il sale.Poi si facevano a pezzi e si condivano con origano,prezzemolo,aglio,peperoncino o pepe e si appoggiavano sulla mazza di legno ad asciugare.

Le nòglje e la pancetta tagliata a fettine si mangiava alla "ciàce e mìnge" (schiaccia e mangia).Si prendeva un pezzo di nòglje o una fettina di pancetta con un forchettone si faceva arrostire sulla brace, quando era pronto si premevano su di esso due fette di pane per recuperare il grasso che si era sciolto e si mangiava il tutto.

La sugna,oltre che per condire, si usava per insaporire una minestra. Questa si faceva semplicemente con patate, finocchio, menta o basilico e sugna; si mangiava inzuppando il pane.

Le famigli più ricche stagionavano il prosciutto del maiale e lo conservavano per le feste o se in famiglia doveva essere celebrato qualche matrimonio, mentre altre più povere erano costrette a venderlo per poter acquistare con quei soldi le scarpe o altro.

"La cumpòste" (costate e salsiccia del maiale) si conservava nelle "serò'le" (grandi vasi di terracotta) con la sugna e non poteva essere mangiato se non durante il periodo della mietitura, poichè non c'era altro. I mietitori dovevano mangiare quattro volte nell'arco di una giornata: colazione, pranzo, merenda e cena. Solo la cena avveniva nella casa del proprietario del terreno nel quale si stava lavorando, mentre durante il giorno si mangiava nei campi. A colazione si portava un'insalata di cetrioli e pomodori e chi lo aveva anche il caciocavallo; a pranzo si portava " la cumpòste ", alcuni usavano portare anche il baccalà essiccato; a merenda frigevano, nella sugna della composta di carne, delle fette di pane bagnate nell'uovo chiamato " lu pànnh'ndurà " o " le scòcche ". Oppure si portava il formaggio fresco e le mozzarelle. A cena si mangiava la pasta con il sugo. Il vino, bevuto solo in questa occasione e ai matrimoni, si andava a comprare a Greci o ad Orsara.

Dopo la mietitura una parte del grano ottenuto si vendeva, un altra parte si portava a macinare al mulino. La farina ottenuta, dopo essere stata setacciata si utilizzava per preparare la pasta a mano.La maggior parte delle volte si facevano le tagliatelle in quanto erano più veloci da preparare per le donne che tornavano dalla campagna, mentre quando c'era più tempo o a volte anche la sera si facevano le orecchiette o i cicatelli. Essi si cucinavano con il sugo o con la verdura.

Il pane si faceva in tutte le case e si portava a cuocere al forno, si facevano anche le pizze, abbiamo:   "la ppizze do le ccìcule" (pizza con i ciccioli del maiale); la pizza con la farina di granoni; pizza bianca. La pizza poteva essere cotta anche in casa nel caminetto. I caminetti avevano una catena che scendeva dal comignolo alla quale si appendeva "lu ciarùnnhe"  (pentola di rame), usata per cucinare qualsiasi cibaria tra cui anche la pizza chiamata "ppìzz'a 'mbése" (pizza appesa) proprio perchè era appesa e la si faceva dondolare per non farla bruciare.

Un altra maniera di cuocere la pizza era sulla pietra tonda che si trovava alla base del caminetto.Quando si spegneva il fuoco per andare a letto si pulica questa pietra e su di essa si appoggiava la pizza ricoprendola prima con un tegame e poi con la brace e la cenere per farla cuocere. Al mattino si sfornava e si mangiava a colazione.

A Pasqua si usavano fare "lo peccelattièlle" (taralli) con farina, acqua e semi di finocchio. Ancora più tradizionali erano dei grossi taralli fatti con l'uovo, questi si mangiavano anche durante i balli quando si sposava qualcuno. Sempre a Pasqua si facevano "le pastètte" (i biscotti tondi).

A carnevale, come succede ancora oggi, si facevano "lo strùsce" (gli struffoli), si friggeva a palline una pastella fatta con lo zucchero, le uova e la farina.

Il giorno dei morti si facevano "lo ceciuòttele" (i ciccicotti). Si mettevano a cuocere nella pignatta el grano e il granturco. Quando erano ben cotti si condivano, a piacere, con zucchero, vin cotto o miele.

La vigilia di Natale si usava fare la zuppa di baccalà,anguilla, patate e cavolfiore; "le pèttele" (pizze fritte) preparate con la pasta lievitata e patate, dopo essere state fritte, a chi piaceva si cospargevano di zucchero. Il giorno di Natale si mangiava la solita pasta con il sugo.

Anche a Celle di San Vito si produceva il miele, però erano poche le persone che lo facevano. Da quello che ricordano gli anziani del posto, c'erano tre o al massimo quattro famiglie, tra quelle che vivevano in campagna, che dedicavano parte del loro tempo a questa produzione. Si raccoglievano gli alveari, si mettevano davanti al fuoco per raccogliere il miele che si scioglieva e così si otteneva il miele di prima scelta. Poi si faceva " l'acqua mèle " (acqua miele) ottenuta dalla bollitura dell'acqua usata per lavare i recipienti che avevano contenuto il miele e gli alveari stessi. Si doveva far bollire fino a quando diventava denso e scuro.

Il miele si vendeva alla gente che non lo produceva, soprattutto durante il periodo dei morti per condire i ciccicotti. Con l'acqua miele si facevano un tipo di biscotti chiamati " lo pupatiélle "

Il miele veniva usato anche durante l'inverno per preparare decotti per la tosse. Un decotto particolare si otteneva facendo bollire: mele, buccia di arance, grano, gusci delle mandorle, malva e alloro; il tutto si condiva con il miele. Si mangiava anche con mele cotte e mele cotogne.

L' estate alle feste tipo San Vito e San Vincenzo si usava comprare la granita fatta con la neve caduta durante l' inverno, il suo costo era di cinque soldi. Difficile da pensare come si potesse conservare la neve per tanti mesi, dato che non c'erano ancora i congelatori. Ma c'erano delle cave di pietra chiamate "neviere", la neve dopo essere stata pressata veniva ricoperta a strati con la paglia. Quella più ricordata è la cava di Faeto, anche a Celle c'era una cava situata sul Buccolo e ancora oggi si può ammirare quel poco che vi resta, ma nessuno tra gli anziani del posto la ricorda funzionante,molto probabilmente la si usava in tempi molto antichi.

Ricordiamo la signora Giannini Maria Grazia moglie di Tramonte Giuseppe (chiamata Raziùcce) che faceva questa granita e molti anziani rammentano quando si recava a Faeto a piedi a prendere la neve portando il blocco in testa. La tritava con un attrezzo a manovella e aggiungeva zucchero e limone così preparata la vendeva nella sua "cantina". La neve veniva usata anche per mantenere fresco il vino e l'acqua.

I frutti dell'inverno erano quelli che duravano più a lungo come ad esempio le mele e le pere si raccoglievano ancora acerbe e si conservano o in una sabbia rossa o in cesti pieni di paglia, per farle maturare. Anche le mele cotogne si raccoglievano acerbe e maturavano successivamente. Si conservano le noci e le noccioline facendole prima asciugare al sole. I fichi si essiccavano al sole; le sorbe che oggi si lasciano marcire sull'albero, anticamente si tagliavano a metà e si intrecciavano con ago e filo come delle collane e si facevano essiccare.

E' simpatico ricordare che tutti i ragazzi a primavera si divertivano a mangiare i fiori della robinia bianca "lo fiùre de càggene" e i petali delle primule, poichè avevano un sapore dolce.

 

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